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Dritta, la slitta

Dritta, la slitta

 

Era febbraio di sei anni fa: mi trovavo a Macerata, vivevo lì, cominciava a nevicare in un giorno qualunque della settimana, quando mi chiamò Il Capitano. Mi disse “voglio costruire uno slittino”, col suo modo di parlare un po’ marcato. Presi l’ultimo treno, i successivi vennero soppressi. Arrivai quasi per miracolo a Fermo. La slitta in cantina era già avviata, e la neve “attaccata”. Diedi un mano nella fase finale di assemblamento: due sci d’acqua di suo nonno, qualche pezzo di legno, una cassetta della frutta, fil di ferro, scotch e una sedia tagliata. I piedi della sedia, segati e rimontati, erano i frenetti laterali. Molto piccoli. Uscimmo quasi subito, per certe cose non puoi aspettare. Le prime discese furono un disastro, la cassetta della frutta nera che sottostava al sedile verde si sfondò e i freni persero quasi subito la poca efficacia che avevano. Ci rimasero proprio in mano. Nonostante tutto arrivammo a fare tutte le piste più importanti, ovvero i vicoli e le discese del centro storico, che, come una località sciistica, sono meta degli appassionati ogni volta che arriva la neve, con i diversi livelli di difficoltà: quella è la pista nera, gialla, blu… Come in ogni stazione c’è poi un bar, o meglio una baita, dove prima e dopo si beve. Ogni sera, dopo le scivolate, nella baita si parlava dei danni subiti e di cosa riparare il giorno dopo, per migliorare le prestazioni. Le viti a posto dei chiodi, il legno a posto della plastica, la cima nautica a posto del jack jack per trainarla, e così via. Passarono i giorni e la slitta passò alla storia per la quantità di discese pericolose, di momenti di panico, di frenate con tre, quattro, sei piedi, e di mancati schianti. Prese il nome di Dritta la slitta, perché non curvava. Qualcuno aveva proposto anche “Muro” come nome. La neve dopo un po’ si sciolse e la slitta tornò in cantina a riposare. Ci rimase chiusa in cantina per sei anni, finché un’altra neve ce la fece tirare di nuovo fuori. Nuovi aggiornamenti tecnici e la Dritta era di nuovo lì, in formissima. Finimmo la birra e ci buttammo sulle piste nere, gialla, blu, una e un’altra volta, scendendo e risalendo, frenando come si poteva, con i piedi, con le braccia, con le mura. In qualche modo ci accorgemmo che qualcosa era cambiato. La città era la stessa, la neve anche, forse un po’ meno, ma più compatta. Le persone intorno a noi, quelle sì che erano cambiate. Eravamo da soli, o quasi, a scivolare, la gente ha sempre più paura della sua età. Forse è vero che quando non vuoi sentire il tempo che passa, parli del tempo che fa. Dopo qualche ora, durante la notte, cominciò infatti a nevicare così forte che tornammo giù, scivolando nelle strade deserte e ghiacciate, fino a casa. Anche le nostre case erano cambiate ed eravamo cambiati noi. Una parte di noi, tuttavia, era rimasta intatta lì, seduta per anni ad aspettarci. Forse quello che eri rimane sempre lì a ricordartelo, che anche tu sei in qualche modo una slitta sgangherata, che devi migliorarti un po’ ogni volta, mettere le viti a posto dei chiodi, pulire i tuoi sci d’acqua, aggiungere un pezzo e toglierne un’altro, che devi giocare e buttarti e rischiare di schiantarti contro un muro, per domani poter rimettere in sesto quello che non va, imparare a guidarti, partire bene, frenare, curvare un po’ prima, e arrivare in fondo alla discesa, magari col tuo compagno di squadra, che negli anni a volte cambia, e a volte non cambia mai.