Il bramante Basquiat
Martedì di fine giugno a Roma, mezzogiorno, caldo umido, turisti, mezzi affollati. Piazza Navona -stranamente un po’ di venticello, caldo -, mi perdo nel bizzarro silenzio di una stradina, quasi un vicolo, che porta al Chiostro del Bramante. Non c’è nessuno in quei metri e per un attimo dimentico di essere nel centro di una metropoli. Entro. Un quadrato, con una geometria chiara. Un posto armonioso, definirei pari, così come a prima vista i numeri di loggiati e portici, insomma tutto. Anche i piccioni, simmetrici. All’interno di questo posto, la mostra di Jean Michel Basquiat. Prendo l’audioguida, cosa che non faccio mai. Mi perdo negli altisonanti racconti di e su questo ragazzo, morto come le rockstar, all’età delle rockstar, tra i suoi quadri, le sue pennellate. Mi faccio i miei viaggi, come tutti, davanti a un’opera d’arte. Mi chiedo anche cosa sia, un’opera d’arte, e un artista: a volte tra la gente mi guardo in giro speranzoso e so che forse vicino a me è passato l’attuale Picasso, o il futuro Maradona, o un pensante giovane super Nietzsche. Artisti, senza dubbio. Torno ai miei stupidi giudizi, alcune cose mi piacciono, altre meno, insomma come a ogni mostra. In quasi tutti i concerti c’è qualche canzone che ti piace di più, e credo che più o meno sia la stessa cosa. Probabilmente dipende da me, dal mio vissuto. Soggettività. E quindi mi attraggono i suoi colori, le idee, la gran cultura, mi suscita curiosità la sua stranezza, o meglio, le sue particolarità. Mi colpisce soprattutto quello che pensa, e spesso scrive, fotocopia, e dice. “Non sono un artista nero. Sono un artista”. Caspita, mi dico… Che grinta. Quando ascolto che fin da piccolo -più o meno come Leopardi- dice che sarà grande, e poi dice “io sono una leggenda” allora dico penso, davvero, che grinta. Per uno che facendo graffiti in una metropoli riesce ad arrivare nelle gallerie d’arte, portando la street art ai piani alti, solo applausi. Però mi chiedo come mai. Vorrei anche chiedergli se l’ha detto davvero, e perché. Qual è il limite -per uno che ne ha da vendere, e su questo sono certo che non siamo tutti uguali- tra essere megalomani oppure non essere finti modesti. Non sopporto i finti modesti, quelli che tirano giù la testa per forza, anche se consapevoli di fare cose sublimi. E allora hai fatto bene, Jean Michel. Infine esco, vibrante di giallo, di rosso, di blu, delle ditate sull’olio -che dita grandi che aveva!- delle idee atomiche, dell’originalità, della rabbia, della memoria, dell’intelligenza, della coerenza di questo personaggio. Mi siedo un attimo, di nuovo, nel chiostro del Bramante, vicino ai piccioni. Mi chiedo che tipo era, il Bramante. Chissà che cosa pensava lui, di sé stesso, con chi ce l’aveva, e se tra cinquecento anni ci ricorderemo di lui. Chissà cosa Bramava, il Bramante. In fondo sono venuto anche alla sua mostra. Cosa sia l’arte, artisti o non artisti, chissenefrega. Per me sono comunque fautori di qualcosa di vero, di qualcosa che rimane. E tra le due opzioni scelgo questa, per chiunque. Restare, bramanti di dire qualcosa di eterno… di qualsiasi colore sia.