PENALTY
“Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Sono molto deluso da questo atteggiamento… vi posso assicurare che è molto, molto più importante” diceva Bill Shankly, leggendario calciatore e allenatore. Nell’ultima settimana calcistica ho assistito per due volte le “mie” due nazionali perdere. Perdere ai rigori. In inglese “calcio di rigore” si dice “penalty”. Traduzione: “penalità”, “penalizzazione”. La prima parte di queste parole dice tutto. Che pena, prima l’Argentina, poi l’Italia. Chi mi conosce sa che propendo per l’albiceleste, ma sono cresciuto in Italia. Alcune cose non si scelgono, è come la famiglia. Famiglia e squadra di calcio.
E allora, prima all’alba europea e poi durante un concerto, calci di rigore. Ho immaginato cos’è per me un penalty. Ho pensato alla gente, ai maxischermi, a un bar di periferia o a un hotel di lusso, a tutto il sistema piegato a qualcosa di così epico. Perché il calcio è come la musica, come la religione. Non ha classi sociali, arriva a tutti. Figuriamoci una partita decisa ai rigori. Qualcosa che resta nella memoria per molto tempo. Un rigore è un rigore: che momento, quando il calciatore arriva davanti alla porta e piazza il pallone! Il tempo si ferma. Immagino, al rallentatore, i suoi parenti e amici davanti alla tv, che gioiscono o soffrono. Immagino tutti i retroscena, la storia personale di quel calciatore, come è arrivato fino a lì, quante ne ha passate, quante emozioni sta mettendo in quel pallone, in quel dischetto, tutta una vita fino ad arrivare lì, a un tiro in porta. Immagino un bambino che cresce, diventa uomo e mette tutta la tua storia, esperienza, problemi personali, gioie, tecnica, soddisfazioni, forza, passioni, tutte lì …in un istante. E ci sei anche tu lì, a tirare il rigore. O a pararlo. Per un attimo non sei più il pubblico, sei lui: ora lo tiro nell’angolino, di piatto, guardo il portiere e lo spiazzo, si… anzi no, lo tiro forte e centrale a mezz’altezza tanto si butta. Una cannonata e via. Neanche lo guardo il portiere. O lo guardo fino all’ultimo. Che poi, rivedendo le facce dei giocatori, sapendo com’è andata la partita, sai se segneranno oppure no. Si vede. Si vede la paura, l’ansia, la determinazione. Si vede subito. In uno smartphone o su un maxischermo, il mondo è fermo, e quel volto dice già tutto. Il boato, è questione di geografia. In alcune parti del mondo urleranno di gioia per il gol, in altre se il tiro viene parato, o se non entra. E partono le sentenze. Ognuno di noi, subito dopo, da calciatore diventa giudice severissimo, per tutti i secoli dei secoli. L’imputato viene giudicato per il rigore. Tutta la sua storia personale si riduce a quell’istante. E tu, che da una vita corri dietro a un pallone… se sbagli, si ricorderanno dell’errore. Se segni, meno male. Se lo pari, sei un eroe. Amen.
Un calcio di rigore è l’immagine della vita. Ci sei tu, da solo, destro o sinistro, lì sul dischetto, contro te stesso. Che sia tu a tirare, o a parare, non importa. In fondo sei sempre solo ad affrontare la vita, e a tutti capita di tirare il proprio calcio di rigore. Che segni o che sbagli, che pari o che ti spiazzano… le luci sono tutte per te, in quell’istante. Non ti dicono che il pallone te lo riporterai comunque a casa per ricordo, firmato da tutti i tuoi compagni di squadra, dall’allenatore, dagli avversari, dall’arbitro, dal guardalinee e dal quarto uomo, dal pubblico, dal telecronista, dal tassista che ascolta la radio, dal bambino con la tua maglietta per il quale sarai eroe o fallito, dal cameriere col vassoio in mano in piedi per un attimo davanti allo schermo. Da tutti. Perché sei stato lì, presente all’appello.
La vita è come la lotteria dei rigori. A volte tiri, a volte pari, a volte sei l’arbitro, a volte esulti dagli spalti, a volte piangi, a volte ti volti o chiudi gli occhi per non guardare.
C’è un momento per tutti, nella prossima partita, nel prossimo rigore, nella prossima volta in cui guarderemo noi stessi urlare: “GGGOOOOOOOLLLLLLLL!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”